Introduzione
Invecchiamo
quotidianamente. Il nostro
invecchiamento comincia con la
nascita e prosegue giorno dopo
giorno. Ma quando “sentiamo”
davvero che sta per avere inizio il
nostro definitivo declino
psico-fisico, quando ci rendiamo
conto che sta avendo inizio
l’ultima stagione della nostra
vita, è questo il momento in cui
dobbiamo sfoderare tutta la nostra
grinta e ed essere capaci di un
nuovo adattamento. È soprattutto
nella delicata fase di passaggio
tra la maturità e la senilità che
il "giovane vecchio” deve
adattarsi ad una nuova condizione
nel rapporto con se stesso e con
gli atri.
Ora poniamoci una domanda
fondamentale e cerchiamo dentro di
noi stessi una possibile risposta:
può la persona in età avanzata
amare, creare, inventare,
fantasticare positivamente,
aspirare a nuove trasformazioni,
sperimentare ancora una certa
“leggerezza” dell'essere?
Risponderemo che c'è ancora spazio
nell'anziano per "l'isola che
non c'è", per pensieri
felici che gli consentano di
volare e di poter liberare “bambini sperduti”,
oppure diremo che vi può
essere solo una mesta attesa dell'isola
sconosciuta
del giorno dopo? La nostra
risposta sarà certamente frutto
del nostro sentimento generale nei
confronti della vita e della
personale weltanschauung
ma, in parte, anche il frutto della
cultura alla quale apparteniamo,
cioè del modo di pensare
collettivo che la comunità di cui
facciamo parte ha sviluppato in
generale riguardo la vecchiaia.
A me pare che la società
post-moderna ponga l’anziano di
fronte ad una delle sue tante (solo
apparenti) contraddizioni: da un
lato gli assegna, secondo un certo
stereotipo culturale, un ruolo
sociale trascurabile, se non del
tutto irrilevante; allo stesso
tempo gli impone di “mantenersi
giovane” a tutti i costi, quale
che sia l’età, impedendogli così
di assaporare con serenità il
“proprio tempo” (considerato
che ogni periodo della vita
presenta aspetti negativi e aspetti
positivi).
Personalmente
sono convinto che sia da tenere in
grande considerazione l’ottica
junghiana che riconosce anche
all’anziano la facoltà di
proseguire nel proprio processo
di individuazione, di
continuare a ricercare la propria
via dell'esistere, il vero Sé,
il compimento della totalità del
proprio essere; con la
consapevolezza che nell’anziano,
come nella persona più giovane, il
percorso che porta
all’individuazione non cessa
mai.
Ne
deriva che ciascuno di noi,
raggiunta la vecchiaia, non deve
rappresentare semplicemente “un
anziano”, ma un individuo che ha
un nome e un cognome, protagonista
di una “lunga” storia personale
e
portatore della quantità di
altre storie che riguardano il
mondo vissuto che ha
interiorizzato.
Date
queste premesse, una psicoterapia
rivolta a persone appartenenti alla
“terza età” appare plausibile,
soprattutto se, uscendo dalla
"fatidica" tassonomia
dell’etichetta, si riesce ad
aiutare l’anziano a recuperare,
“nome e cognome”, il
profondo significato e tutto il
valore del suo romanzo personale.
Le pagine che seguono
offrono una panoramica sulla
senescenza
e sui fattori che possono influire
negativamente o positivamente su
essa.
Può
volare ancora Peter Pan?
_______________________