La disabilità è una condizione di svantaggio, quale risultato di una
menomazione fisica o mentale che preclude il normale completamento in una
particolare area (fisica, psichica o sensoriale). Ne deriva uno svantaggio
che rende difficoltosa la normale vita quotidiana e l’acquisizione di un
ruolo sociale all'interno della comunità di appartenenza.
Nell’esaminare le diverse implicazioni relazionali e sociali relative
alla disabilità dobbiamo tenere presente innanzitutto che se è vero che
i bambini disabili hanno, a causa della menomazione, notevoli difficoltà
a sviluppare degli armoniosi ed integrati rapporti con gli altri esseri
umani, è pur vero che anche molta gente ha considerevoli difficoltà a
stabilire degli armoniosi ed idonei rapporti con gli individui disabili e
che questo ultimo fattore è, in parte, certamente un fattore che accresce
in modo decisivo le stesse difficoltà psichiche ed interpersonali del
disabile.
Si tenga conto che, anche in assenza di malattie fisiche, le influenze
ambientali e culturali possono, in determinate condizioni, provocare
alterazioni della crescita fisica e dello sviluppo psichico. In proposito,
e sufficiente ricordare la Sindrome da Ospitalismo, descritta nel 1945 da
Renè Spitz, riguardante bambini molto piccoli, per lungo tempo ricoverati
in ospedali e istituzioni, i quali soffrivano la prolungata separazione
dalla madre nonostante ricevessero adeguate cure da parte di operatrici
altamente specializzato nel nursing. Questi bambini presentavano, in
alcuni casi, un serio arresto della crescita e dello sviluppo, inoltre
un’alta suscettibilità malattie infettive e di conseguenza un’elevata
mortalità.
A seguito di questi studi, oggi finalmente, nei reparti di pediatrici si
consente alla madre di rimanere con il proprio bambino durante l’intero
periodo di ospedalizzazione.
Ritornando al problema delle interazioni tra soggetti disabili e il loro
entourage (ci riferiamo soprattutto a genitori, educatori e coetanei,
compresi fratelli e sorelle) dobbiamo far cenno ad alcune dinamiche
abbastanza bene chiarificate in epoca recente attraverso gli studi sulla
comunicazione umana, che in sintesi possono essere riassunte nelle
seguenti formulazioni:
a) ogni comportamento è una comunicazione che a sua volta provoca una
risposta consistente in un altro comportamento-comunicazione (azione e
retroazione);
b) il comportamento di un membro, all’interno di una famiglia (o di un
piccolo gruppo), influenza inevitabilmente il comportamento di tutti gli
altri membri con il risultato che l’ecosistema familiare (o gruppale) si
stabilizza attraverso di modelli di interrelazione/comunicazione che
finisco con l’incamerare ciascuno in un ruolo fisso che è difficilmente
passibile di mutamenti. Ad esempio, tutti conoscono la figura del capro
espiatorio.
La nascita di un bambino, cioè l'aggiungersi di un nuovo membro ad un
gruppo familiare, è un evento carico di significati, di aspettative, a
volte di vicissitudini. Naturalmente i problemi sorgono e si acuiscono nel
momento in cui il nuovo membro è un bambino che avrà problemi di
disabilità.
Un tempo, prima dello sviluppo della rete assistenziale e del supporto
sociale in favore dei disabili, più frequentemente si potevano riscontare
comportamenti erronei nei confronti di questi bambini. Le reazioni spesso
variavano tra i due estremi della reiezione (più o meno inconscia) e
dell’iperprotezione. Nel caso in cui prevalevano i sentimenti misti di
rabbia, risentimento e senso di colpa, i genitori sembravano incapaci di
contenere un rifiuto più o meno nascosto nei confronti del figlio il
quale cresceva con l’oscura sensazione di non essere pienamente
desiderato e amato. Al contrario spesso accadeva, come accade ancora oggi,
che i genitori riuscissero ad affrontare i loro sentimenti negativi
sostituendoli con accentuate preoccupazioni e con l’iperprotezione. In
altre parole, le premure asfissianti prendevano il posto delle consuete
cure materne quale principale mezzo per tenere a bada i sensi di colpa. Il
senso di colpa può essere denegato soltanto a prezzo di una incessante
vigilanza, ma, in queste condizioni, il bambino non potrà mai sviluppare
tutta l’autonomia che gli è possibile.
Evidentemente, esiste tutta una gamma di più sottili dinamiche ugualmente
fortemente incidenti sulle vicende del gruppo familiare che deve dedicarsi
ad un bambino disabile. Ad esempio, è importante il ruolo giocato dagli
altri figli e l'atteggiamento che su di essi i genitori riversano. Alcune
volte si sviluppa un accentuato reciproco risentimento tra marito moglie.
Talora, sulla famiglia può influire anche una serie di ansietà di natura
sociale, e talora possono influire eventuali pregiudizi; in questi casi
non vengono a mancare l'amore e la disponibilità nei confronti di un
figlio disabile, ma l’aiuto da parte dell'ambiente circostante
all’accettazione da parte della famiglia della situazione di svantaggio
in cui si trova il minore.
Primo scopo da raggiungere è quello di far conoscere ai genitori la realtà
obiettiva in cui il figlio si trova, le specificità della sua disabilità
e le caratteristiche della sua personalità. Si deve dare loro aiuto a
trovare un giusto equilibrio tra i fatti soggettivi (sentimenti dei
genitori) e i fatti obiettivi (situazione reale del bambino) che, nella
maggioranza dei casi, presentano una notevole discrepanza.
In diversi casi l'ostacolo principale a questa accettazione realistica è
costituito dalla convinzione che hanno i genitori di aver dato vita a
qualcosa di imperfetto con conseguente sensazione di fallimento. Questo
vissuto è certamente pesante da sopportare e i genitori cercano di
superarlo mettendo in atto vari meccanismi sia di difesa che di
compensazione. Talora la "colpa" per la disabiltà del figlio
viene proiettata su qualche realtà esterna, talaltra è la stessa
disabilità che viene in qualche modo negata. Il supporto fornito da
operatori esperti nelle relazioni familiari può favorire nei genitori del
bambino disabile la presa di coscienza di loro meccanismi di difesa e di
compensazione e ciò può risultare di fondamentale importanza ai fini di
una maggiore accettazione.
Quello che ci preme sottolineare è che in ogni caso, già prima di essere
e di funzionare come persona (personcina in evoluzione) e, pertanto, (in
termini relazionali) prima di comunicare, comportarsi e agire, un bambino,
sin dal momento in cui si comincia ad evidenziare la sua disabiltà, può
essere sottoposto a tutta una serie di messaggi, comunicazioni,
comportamenti e azioni (sia consci che inconsci) da parte delle persone
circostanti che certamente sono di per sé psicologicamente disturbanti in
quanto densi di atteggiamenti inadatti che raramente, salvo casi di
genitori psichicamente disturbati o particolari condizioni di vita, i
bambini normali subiscono.
Le conseguenze di questo primo modellamento, oltre le difficoltà di
sviluppo e di maturazione, sono l'attivarsi nel bambino disabile di
modalità di risposta e successivamente di modalità di interazione
perfettamente complementari o simmetriche agli stimoli negativi ricevuti.
Cioè il bambino disabile tenderà sempre a sviluppare rapporti e ad
aspettarsi atteggiamenti da parte degli altri, analoghi a quelli
sperimentati e vissuti nei primi anni di vita.
Sin qui abbiamo esaminato alcune fra le principali cause esterne cioè di
natura psico-sociale che interferiscono sulle potenzialità di sviluppo
del bambino disabile. Un ulteriore aspetto che sembra ora necessario
esaminare è quello relativo alle conseguenze intrapsichiche della
disabilità, sia dal punto di vista neuropsicologico che dal punto di
vista prettamente psichico. Per quanto concerne il primo punto di vista
bisogna tenere presente che lo sviluppo delle varie funzioni
neuropsicologiche è interdipendente, per cui, in relazione alla
disabilità,
non si osserverà quasi mai semplicemente ritardo o arresto di sviluppo
settoriale di una o più funzioni e/o capacità di prestazione, ma una
patologia maturativa globale comprendente le varie funzioni tipiche di una
certa età (funzioni pratto-gnosiche, motricità, schema corporeo,
linguaggio, affettività, carattere, intelligenza).
Dal punto di vista psichico – considerando che l'esperienza soggettiva
del proprio disturbo, un certo disagio nel compararsi con i coetanei
normali e determinati insuccessi nelle relazioni interpersonali
costituiscono un traumatismo psichico cronico, che esalta a circuito
chiuso, le difficoltà di adattamento – si dovrà operare in modo da
prevenire elevati stati di insicurezza e ansia, a partire dai quali si
potrebbero sviluppare episodi depressivi, stati di aggressività, blocchi
inibitori, negativismo, o vere e proprie forme di autismo psicotico.
A proposito di autismo psicotico si deve sottolineare che, per le diverse
implicazioni sia dal punto di vista evolutivo che dal punto di vista
terapeutico, bisogna fare una distinzione tra i bambini disabili psichici
organici e bambini disabili psichici funzionali, quest'ultimi meglio
definibili come bambini psicotici (pur precisando che nell'infanzia non
sempre le alterazioni psichiatriche sono disgiunte da lesioni organiche).
In genere, i disabili psichici organici, cioè i portatori di primitive
lesioni organiche encefaliche, evidenziano quasi sempre un’accentuata
tendenza a mettere a frutto il loro, anche se limitato, potenziale di
capacità ed inoltre mostrano di fare notevoli sforzi di adattamento alle
richieste ambientali. Al contrario, i bambini psicotici, cioè i bambini i
quali presentano esclusivamente delle alterazioni di funzione dei processi
mentali in assenza di alterazioni organiche, evidenziano quasi un rifiuto
ad utilizzare le loro capacità potenziali, a volte notevoli, pur
conservando rimarchevoli possibilità di recupero in seguito ad interventi
oculati e tecnicamente corretti. Inoltre, bisogna tenere presente che, in
età evolutiva relativamente ai disturbi funzionali (non dovuti ad
alterazioni cerebrali organiche), vale la seguente regola: i disturbi sono
imitativi, indotti o reattivi e scompaiono con il cessare delle cause che
li provocano. Si può ora meglio comprendere dal punto di vista
terapeutico come gli interventi sono differenti a seconda della natura
delle alterazioni: prevalentemente riabilitativi con eventuali appoggi
psicoterapici nei casi con patologia organica; principalmente
psicoterapici con eventuali sostegni abilitativi nei casi presentanti solo
una patologia psichica funzionale.
Ritornando agli aspetti prettamente relazionali e sociali, c'è da
considerare che con il progredire dell'età al bambino disabile e alle
persone che lo circondano si pone in forma sempre più assillante la
necessità di affrontare di alcuni problemi fondamentali legati al
raggiungimento, per quanto possibile, della autonomia personale,
dell'indipendenza fisica, dell'emancipazione psicologica. Spesso i
genitori assumono degli atteggiamenti educativi errati perché pongono al
bambino delle richieste a volte scarse, a volte eccessive. Spesso avviene
confusione tra il “non volere” del bambino e il suo “non potere”.
In realtà, sarebbe meglio evitare al bambino delle pressioni abnormi
finalizzate ad ottenere delle prestazioni che potrebbero rivelarsi
superiori alle sue possibilità; esse possono risultare ulteriormente
frustranti e provocare non solo irritabilità e aggressività ma anche
sentimenti di avvilimento e di fallimento. L'atteggiamento opposto,
iperprotettivo, con attese e sollecitazioni troppe scarse rispetto a
quanto il bambino potrebbe fare risultano ugualmente frustranti e negative
perché privano il bambino di quegli stimoli che dovrebbero aiutarlo a
ricercare e ad acquisire capacità e gratificazioni compensative in campi
in cui la disabilità non inferisce. Ad esempio, il bambino fisicamente
menomato può essere aiutato a trovare realizzazione in campo
intellettuale, proprio come il bambino intellettualmente deficitario può
essere in grado di raggiungere alcuni risultati nel campo delle attività
fisiche [vedasi “Attività psico-pedagogiche parascolastiche per allievi
svantaggiati”, in www.psicologia-dinamica.it; home pg., link: thematic
area]. Inoltre, è proprio la quantità e la qualità di contatto con
l'ambiente, in senso lato, a determinare il ritmo di sviluppo individuale;
quanto più ridotte sono tali opportunità, tanto più grave è lo
svantaggio. Relazioni sociali ridotte o centrate sulla dipendenza privano
i bambini delle interazioni intellettuali e sociali fondamentali che solo
il contatto con gli altri può assicurare. Parimenti è necessario che il
soggetto possa avvalersi di persone che organizzino e rinnovino
continuamente gli stimoli idonei a sviluppare le sue funzioni cognitive e
le capacità di prestazione mentale. Analogamente, lo sviluppo di schemi
adeguati di comportamento emotivo sembra richiedere l'esperienza ripetuta
di eventi e situazioni sociali come l'interessamento, la lode,
l'approvazione e la ricompensa affettiva per le forme di condotta
desiderabili, inoltre, il sostegno sociale di fronte alle avversità, e,
infine, interventi correttivi che però non generino nuovi problemi nella
sfera dell'emotività. Quel che conta è che lo sviluppo dei soggetti
disabili sia fatto progredire al massimo delle possibilità individuali.
Un bambino, sin quando frequenta la scuola materna, trascorre il suo tempo
in un'atmosfera protettiva e di gioco; ma non appena fa il suo ingresso
nella scuola elementare, sperimenta un radicale cambiamento dato che ora
l'atmosfera è di valutazione obiettiva, di giudizio sulle capacità, di
richiesta di performance, di confronto e di rivalità con i compagni di
classe; ma soprattutto viene richiesto uno sforzo di adattamento e capacità
di socializzazione in un assetto ancora poco abituale: cioè stare assieme
agli altri compagni, seduti ed applicati, in pratica in una posizione di
lavoro, del tutto analoga a quella che devono assumere gran parte degli
adulti che fanno un lavoro sedentario. Evidentemente, questo assetto non
favorisce l’adattamento scolastico del bambino disabile, e ciò rende più
difficile il compito dei compagni e soprattutto dell'insegnante di
aiutarlo ad integrarsi; tali difficoltà sono in parte acuite dalla
maggiore o minore consapevolezza che ha il bambino della propria diversità.
A volte, a causa di tutto ciò, il disabile manifesta a scuola il proprio
disagio o con blocchi psico-emotivi, con l'irrequietezza psicomotoria o
con comportamenti aggressivi, soprattutto quando è invaso dalla angoscia
o dalla paura.
Raramente, rispetto al passato, si incontrano difficoltà a trovare un
compagno di banco disponibile, parimenti meno frequenti sono le lagnanze
da parte di genitori degli altri scolari per il timore che l’inserimento
del disabile possa in qualche modo rallentare il procedere dell’intera
classe.
Spesso è la carenza di adeguate strutture istituzionali e la non adeguata
preparazione degli educatori che influisce negativamente sul processo di
socializzazione ed integrazione scolastica del bambino disabile. Questi
inconvenienti possono essere superati con insegnanti che conoscano quali
siano le forme di gratificazione e di disapprovazione che facilitano o
inibiscono il processo di apprendimento, e che, inoltre, siano capaci di
non pretendere che sia l'allievo ad adattarsi ai programmi e alla mentalità
del corpo docente e, infine che siano abili a condurre un insegnamento
individualizzato attraverso la programmazione di precisi obiettivi da
raggiungere e da verificare periodicamente. Proprio per questo è
necessario evitare inserimenti frettolosi e che non siano preceduti da
un’accurata indagine neuro-psicologica diretta ad accertare il
potenziale di base del soggetto. Inoltre, è necessario svolgere un
accurato lavoro preparatorio affinché gli insegnanti abbiano adeguati
strumenti di intervento senza che tutto si risolva semplicemente in una
generica accettazione umanitaria.
L'equipe multidisciplinare di neuropsichiatria infantile ha il compito di
affiancare l’educatore e di fornirgli consulenza. L’équipe
multidisciplinare deve approfondire in modo analitico (diagnosi
funzionale) lo sviluppo psicofisico sino a quel momento raggiunto
dall'alunno disabile nelle diverse aree (cognitiva, affettivo-relazionale,
espressivo-linguistica, sensoriale, motorio-prassica e
neuro-psicolgica:
memoria, attenzione, orientamento spazio-temporale) e verificare il grado
di autonomia raggiunto. L’équipe neuropsichiatrica infantile, in base
alle potenzialità emerse e alle possibilità di recupero, traccia -
assieme ai docenti curriculari e agli insegnanti specializzati, e con la
collaborazione dei familiari dell'alunno - dopo un primo periodo di
inserimento scolastico, il livello di sviluppo raggiungibile a breve e
medio termine dall'alunno disabile (profilo dinamico funzionale) a seguito
della programmazione di una serie di interventi integrati (scolastici ed
extrascolastici) didattico-educativi, riabilitativi e di socializzazione
individualizzati (piano educativo individualizzato) che consentano
all'alunno disabile di raggiungere un livello di educazione, di istruzione
e di integrazione sociale.
La formazione psicologica degli insegnati è fondamentale per evitare che
essi possano rimanere frustrati dalla discrepanza tra i risultati in
qualche modo sperati e quelli in pratica ottenuti. È nel momento in cui
alle cariche umane e agli sforzi messi in gioco non corrispondono i
risultati attesi, cioè nel momento della delusione, che può nascere la
fantasia di “mollare”, che potremmo anche interpretare come
"perplessità confusa", per sottolineare il fatto che
l'insegnante o l'operatore sociale possono alla fine non sapere come
continuare a gestire una situazione difficile perché è caratterizzata da
ripetuti insuccessi. La soluzione è in parte tecnica e in parte
formativa.
Per soluzione tecnica non intendiamo, in questo momento, fare riferimento
alla tradizionale delega ai tecnici del settore “psi”, ma al contrario
l'acquisizione da parte dell'insegnante di competenze che consentano un
rafforzamento della capacità di prendere in carico l’allievo
svantaggiato alla luce di una “ragione costruttiva”, nel senso anche
di costruzione di rapporto, cioè di una relazione con l’allievo che si
svolga in una “situazione strutturata attraverso un ravvicinamento
strutturato", quale probabilmente solo la scuola può offrire in una
atmosfera naturale, cioè non da laboratorio, o dove il laboratorio può
diventare ambiente naturale, permettendo gruppuficazioni non emarginanti.
D'altro canto, bisogna pure considerare che ciascun essere umano, pertanto
ciascun bambino, salvo determinate costanti personologiche, interagisce in
modo diverso a seconda della persona con cui entra in rapporto. Pertanto,
con un certo individuo lo si vedrà docile e condiscendente, con un altro
irrequieto e ribelle. Ciò dipende molto dall'atteggiamento di chi gli sta
davanti e dal contesto in cui si definisce l'incontro. Naturalmente ciò
vale anche per il bambino disabile. Non è ipotizzabile che un bambino che
riceva messaggi ambigui e che avverta disagio nella persona che gli sta
davanti, per esempio l'insegnante, non sviluppi delle reazioni emotive e
comportamentali corrispondenti, anche se si tratta di un bambino in
trattamento psicoterapico o riabilitativo. D'altra parte nessun
riabilitatore o psicoterapeuta infantile potrà mai sostituire
l'insegnante nei suoi compiti specifici. Vale a dire: una parte del
lavoro, il suo, lo potrà svolgere solo l'insegnante!
Nel caso di bambini disabili, a parte l'istituzione sistematica di
plurimomenti extraistruttivi, la costruzione di un rapporto tecnicamente
corretto deve rispettare la seguente regola fondamentale: tenuto conto che
il bambino ha dei deficit settoriali specifici che in qualche modo
ritardano la sua maturazione globale, l'atteggiamento e le richieste
devono rispettare lo stato di maturazione raggiunto. Così per esempio a
un bambino di 8 anni, che però presenta uno stadio di maturazione
neuropsicologica paragonabile a quello di un bambino di 5 anni, non si
possono pretendere prestazioni, comportamenti, atteggiamenti, diversi da
quelli che comunemente si richiedono ad un bambino di 5 anni; quel che
conta è non privarlo di adeguati stimoli allo sviluppo. Così, un altro
esempio, sarebbe un errore richiedere ad un bambino, il cui sviluppo
cognitivo è ancora in piena fase preoperatoria (si veda Jean Piaget),
prestazioni psicointellettive che può compiere solo un bambino che ha già
raggiunto lo stadio delle operazioni concrete. Solo dopo che sarà stato
aiutato a consolidare tutte le capacità tipiche di un determinato stadio
dello sviluppo psico-cognitivo il bambino potrà cimentarsi, senza
eccessive frustrazioni, in attività attinenti alla fase successiva. Tutti
i bambini hanno bisogno di fare esperienze adatte al loro livello e ritmo
di sviluppo e il bambino disabile non fa eccezione; attraversa le stesse
fasi di sviluppo degli altri bambini ma il suo ritmo evolutivo è
differente.
Prima di concludere, un altro aspetto attinente alla formazione
psicologica dell’insegnante va sottolineata. In generale, si può
affermare che l'operatore è una persona tecnicamente preparata riguardo
il compito specifico che deve affrontare. Naturalmente è necessario che
la preparazione tecnica sia accompagnata da doti umane o se si preferisce
da specifiche sensibilità. Si vuole evitate qui di affrontare alcune
questioni come quelle legate all'etica professionale che in molti casi
potrebbe sopperire le doti umane o le sensibilità qualora carenti, mentre
si ritiene necessario porre l'accento sul fatto che, se la qualificazione
o preparazione tecnica è facilmente ottenibile dall'insegnante attraverso
gli specifici corsi di laurea, per quanto riguarda le sensibilità non
esistono corsi per insegnarle. In verità ci sono metodi quali la
psicoanalisi (dirette a ristrutturare la personalità) che consentono uno
sviluppo di sensibilità o qualità umane, ma, si tratta di metodi
indubbiamente costosi sia in termini emotivi, che in termini di tempo ed
economici; pertanto non proponibili a tutti. Esistono possibilità di
formazione psicologica che pur non offrendo una vera e propria
ristrutturazione della personalità consentono una modificazione pur
parziale delle personalità soprattutto relativamente alla capacità di
stabilire adeguate relazioni d'oggetto professionale. Sarebbe
indubbiamente necessario che tutti gli operatori sociali fossero
psicologicamente formati alla relazione d'oggetto professionale, ma la
stessa formazione è insufficiente qualora l'operatore manchi della buona
volontà. Molto spesso un operatore sente il bisogno di dotarsi di
formarsi psicologicamente proprio perché ha preso coscienza delle
profonde implicazioni psicoemotive implicite nel rapporto con l'utente;
pertanto, si può affermare che la formazione è frutto di una volontà di
acquisire esperienze formative. Nei casi più gravi l'operatore non può
essere definito tale perché manca sia di qualificazione, sia di
formazione sia di sensibilità, è in tal caso, verosimilmente, una parte
del suo Sé ed una parte del Sé dell'utente finirebbero con l'essere
costretti a vivere il loro incontro come qualcosa di assurdo e di
incomprensibile, come un brutto sogno che costringerà a trovare al di
fuori del loro rapporto altre realtà più gratificanti. In ambito
istituzionale la “mente di gruppo” degli operatori, cioè l'èquipe
come insieme indistinto, può anch'essa influire negativamente
sull’intero contesto. Ciò quando meccanismi ricorrenti nelle vicende
gruppali finiscono per sovrastare le risorse individuali, la creatività,
la cooperazione. In tali casi, diversi educatori, responsabili di una
classe, potrebbero trovarsi intrappolati in una sorta di mente gruppale
che condiziona negativamente le pratiche e i modelli dell'operare, che,
pur non condivise dalla coscienza del singolo, rappresentano comunque la
risultanza del contributo anonimo di tutti gli insegnanti di una classe.
È su queste cose che bisogna riflettere quando si lavora con bambini
disabili.